domenica 13 luglio 2008

TEMPO ORDINARIO: 15a DOMENICA


Tratto dal sito www.omelie.org "La liturgia del giorno" a cura del Centro Editoriale Dehoniano a cura di Gerardo Antonazzo

Letture: Is 55,10-11; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23

Gli obiettivi minimi che un oratore si prefigge sono almeno due: attirare l’attenzione, e farsi capire dagli ascoltatori. Al fine di raggiungere entrambi gli obiettivi, il modo di parlare di ciascuno obbedisce a delle strategie che, a parer suo, possono rendere al meglio tale riuscita. “Egli parò loro di molte cose con parabole”: Gesù privilegia spesso la scelta strategica della “parabola” per rivolgersi ai suoi ascoltatori. Nel vangelo odierno Gesù lo dichiara all’inizio del testo, poi lo conferma con i diversi versetti collocati non a caso al centro della narrazione, con i quali spiega il senso profondo dell’utilizzo del genere letterario della “parabola”.
Alla domanda dei discepoli: “Perché a loro parli in parabole?”, Gesù spiega che la parabola è usata con lo scopo di scuotere e provocare; chi ascolta il racconto non può rimanere comunque impassibile e indifferente come se il contenuto della parabola non lo riguardasse. La reazione dell’uditore è mirata alla sua conversione, alla metànoia, al cambiamento radicale di mentalità e, quindi, dello stile di vita. I riferimento alla chiusura dell’animo, alla non-comprensione, al non-ascolto, alla durezza dell’orecchio, etc, non dicono l’impossibilità di capire la parabola (sarebbe un fallimento in partenza!), ma preannunciano una possibile reazione negativa di chiusura e di rifiuto. E’ una presa d’atto in anticipo di quella che sarà la reazione ultima di tanti che, pur ascoltando e comprendendo le esigenze di quella parola, non saranno di sposti a darle credito. Si ostineranno nel rifiuto e nella durezza del cuore.
Mentre Gesù racconta la parabola, siamo nel vivo della stagione della semina. Gesù parla alle folle dal mare, seduto su una barca. Ha di fronte a sé, in lontananza, lo spettacolo meraviglioso di grandi estensioni di terreno arato e quindi messo nelle condizioni migliori di fertilità. I contadini, a braccia robuste e allargate, con ampi e spaziosi gesti capaci di disegnare forme geometriche ritmiche e precise, affidano alla fecondità del terreno la fruttuosità del seme. E aspettano, ansiosi di veder germogliare il chicco con l’apparire dei primi figli d’erba, segni premonitori di un possibile abbondante raccolto: “Tu visiti la terra, Signore, e benedici i suoi germogli”.
Il testo del vangelo di s. Matteo è composito: combina insieme il racconto della parabola, con la sua spiegazione; resta difficile attribuire direttamente a Gesù anche questa seconda parte, dal momento che la parabola non veniva direttamente spiegata. L’attenzione del lettore è calamitata sia dalla bontà assoluta del seme, sia dalle condizioni diverse del terreno che riceve la caduta del seme. Come il terreno per sua natura è fatto per ricevere il seme, così l’uomo attende di accogliere il seme della Parola, la rivelazione del Signore. Il seme viene da Dio, è sempre lo stesso: buono e selezionato nella sua qualità. Il terreno è classificato invece in modi diversi: strada, terreno sassoso, rovi, terreno buono. Al di là della tentazione di una lettura moralistica della parabola, è senz’altro evidente che la stessa spiegazione della parabola che il testo offre, ci orienta a riflettere sulle condizioni del terreno che riceve la graziosità del seme.
Oggi di fronte all’irregolarità delle stagioni climatiche, di fronte ai problemi di inquinamento che hanno alterato le condizioni favorevoli alle stesse produzioni, si ricorre alla scelta di modificare geneticamente i semi. Il vangelo non lascia spazio al minimo dubbio circa la bontà del seme: è necessario, piuttosto, modificare il terreno! E’ indispensabile disporsi al seme della Parola con l’atteggiamento migliore, per poter favorire la fruttuosità della volontà di Dio nella nostra esistenza.
L’accoglienza della Parola, perciò, è il processo più importante e, allo stesso tempo, più difficile nella vita del credente: il Maligno insidia il rapporto tra il terreno e il seme della Parola. Infatti la parabola, con la chiarezza che le è propria, descrive i motivi e modi diversi con cui il Maligno opera in questa sua strategia di far fallire la produzione: chiude la mente alla comprensione della Parola, ci deruba la speranza e ci getta nella sfiducia; getta nella tribolazione o causa la persecuzione che prosciuga la gioia della Parola.E i nostri tanti “sì” diventano i drammatici “no” dell’incostanza o del ripensamento; anche la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola.
I verbi del terreno buono, invece, sono: ascoltare, comprendere, dare frutto, produrre. Cosa rende “buono” il terreno? La bonifica dal Maligno: solo una vita bonificata dalle tentazioni, dalle illusioni, lusinghe e miraggi di chi ci vuole male, può accogliere la semina del buon Dio. Vale molto il modo in cui il credente si dispone all’opera di Dio: essa può risultare perfino infeconda se la disponibilità dell’uomo è inesistente. Il seme di Dio non può operare indipendentemente dalla predisposizione del terreno. Per rendere disponibile la nostra vita alla Parola, dobbiamo misurarci con queste esigenze. Allora potremo veder germogliare anche i deserti delle nostre limitate capacità.

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